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Urge un volontariato che si riprenda la parola

di Giuseppe Stoppiglia

Nel contesto generale in cui siamo e ci troviamo a vivere, mancando luoghi collettivi e momenti formativi comuni, incontriamo grosse difficoltà a riflettere assieme.

Considerando poi che negli ultimi trent’anni si sono paurosamente indeboliti i significati sociali condivisi (dignità della persona, giustizia, solidarietà, ecc.), la struttura psicologica e morale è impostata dalle varie agenzie educative (famiglia, scuola, associazioni) quasi esclusivamente sull’individuo e non sulla relazione. C’è quindi il rischio reale che il volontariato diventi un atto di compassione e di pietà individuale, un’esortazione alla pratica delle opere buone.

La missione del volontariato è invece un’assunzione di responsabilità con la funzione primaria di coltivare l’umano, di avviare il processo personale e collettivo, di mettere al centro la persona concreta, non il concetto o l’idea di uomo. Il messaggio originale e profetico del volontariato si concretizza, oggi, nella scelta di porsi contro il dominio delle strutture e dei processi sociali sull’uomo, puntando a diventare una strategia contro il fatalismo, che dichiara impossibili le scelte alternative al pensiero unico, alle strutture esistenti, allo standard comune.

Oggi il volontariato sta passando una crisi profonda perché sta diventando ormai un canale di standardizzazione, o peggio ancora, un luogo per il trasferimento di comportamenti standardizzati all’interno della società.

Mentre le Istituzioni tendono a bloccare il cambiamento, il volontariato dovrebbe invece inventare forme che portino al cambiamento.

Oggi invece si presenta debole nella sfida al contesto in cui si trova, non è incisivo, è troppo autoreferenziale, riduce le proprie energie a ritagliarsi lo spazio per le sue attività.

Mancando lo spazio condiviso della conoscenza, non incide nel processo decisionale o nella scelta sulla priorità degli obiettivi.

Disorientamento

Il sentimento che vivono, oggi, molti contemporanei è quella di una sensazione di disorientamento. Disorientati come individui, come cittadini e come credenti.

Abbiamo perso la bussola, non sappiamo dove andare, che strade prendere, che direzione seguire.

Sto parlando di qualcosa che non appartiene alla cronaca sfuggente, ma di una caratteristica della nostra epoca, che ci avvolge come l’oscurità della notte.

Più rimaniamo schiacciati nel presente, prigionieri della cronaca, menocapiamo quello che effettivamente accade.

Allargare lo sguardo a un orizzonte più ampio, è perciò la condizione per poter percorrere le vie della comprensione.

E’ in atto da tempo, anche in Italia, una vera opera di diseducazione e di imbarbarimento sistematico dei giovani.

Vengono introdotti al brutto, alla distruzione, al culto dell’accumulo, alla ricerca della propria soddisfazione personale, al pensare esclusivamente a se stessi.

Le conseguenze si vedono in ogni campo, ma diventano a volte perfino tragiche nella diseducazione affettiva e sessuale (quanto è emerso al tribunale di Perugia, nell’autunno scorso, in un processo per assassinio, ci sembra un brutto sogno).

Il dramma maggiore è che questi giovani non sanno più da chi imparare l’arte della vita nell’amore serio e umano (la famiglia pare non avere potere educativo in merito o ci ha rinunziato?).

Non ci sono spazi dove, oggi, il ragazzo possa apprendere che la tenerezza unisce più della violenza, che la sessualità è progetto di vita, che l’intimità è dono di sé per portare gioia alla persona amata.

Ci sono invece molti (troppi) spazi dove si impara presto il contrario: goditi la vita, e se qualcuno deve pagare siano gli altri, mai tu.

Il mito della crescita continua può aver prodotto questa tracotanza dell’io.

Si sta perdendo, infatti, il senso di stare con, di essere con, e la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole (di qui la fatale progressione localistica) fino alla riduzione al singolo individuo.

È, appunto, il singolo ciò su cui costruisce tutta la sua l’ideologia la Lega: i diritti sono solo degli individui, il diritto è solo individuale, perciò, rispetto agli altri, non vi possono essere che contratti, in funzione dei rispettivi interessi e del reciproco scambio.

Un’epoca, la nostra, caratterizzata dal primato del contratto e dall’eclissi del patto di fedeltà e di solidarietà.

Se tale è l’impianto di fondo (l’individualismo proprietario), non c’è da stupirsi di quanto possano essere vuoti e sterili i richiami (anche cattolici) a una mera solidarietà ed è giustificato il consenso crescente alla Lega, che ne rappresenta pienamente lo spirito anti-solidale.

«Prima i nostri» indica questa carenza umana, che percorre come oscura epidemia il nostro popolo, largamente affetto o influenzato dalla miopia dell’egoismo etnico/economico.

L’indifferenza

In questa società globalizzata e omologata, gli individui sono segnati da sentimenti di paura e d’angoscia, più che da sentimenti di rivolta e di conflitto.

Il linguaggio che li unisce e li caratterizza diventa quello dell’idolatria, che non è una forma religiosa deviata, ma una rottura a livello antropologico, che tocca il modo del vivere umano.

L’esito inesorabile è di attivare processi di disumanizzazione, che sfigurano l’essere umano nella sua immagine e nelle sue relazioni, fino alla perdita di umanità (come la cronaca quotidiana ci documenta ampiamente di episodi sconvolgenti).

Altro idolo che si aggiunge a quello dell’individualismo proprietario è quello dell’indifferenza all’ingiustizia, al dolore altrui, al bisogno che ci circonda.

«L’indifferenza al male è male», ma è più giusto dire che l’indifferenza è essa stessa un male. Il contrario del bene non è il male, ma l’indifferenza.

Il contrario della vita non è la morte, ma l’indifferenza.

Il contrario della verità non è l’errore, ma l’indifferenza.

Il contrario della bellezza non è il brutto o il deforme, ma l’indifferenza.

L’indifferenza è la prima alleata del male in tutte le sue forme, e spesso la sua giustificazione.

Nelle comunità cristiane l’indifferenza è percepita come un ospite inatteso, un intruso indesiderato, una presenza ingombrante di fronte alla quale si è tentati di rimuoverla con la nostalgia di un mondo popolato da militanti, oppure di condannarla con giudizi sommari e definitivi.

Invece dovrebbe essere uno stimolo a porsi domande salutari: perché il cristianesimo ha cessato di essere interessante agli occhi di molti?

I cristiani sanno davvero esprimere e comunicare la loro peculiarità, la loro “diversità”?

La gerarchia ecclesiastica, a volte, è colpevole di omissione, di non dire, cioè, la parola profetica sull’ingiustizia e la giustizia, sulla prevaricazione e sul diritto, sul dominio e sulla pace.

Questa parola è loro affidata, perché possa elevare il cammino della storia umana lungo i tempi, ma restano in un silenzio colpevole.

Crisi della parola e la sconfitta dello Spirito

La condanna dei ricchi e dei potenti è stato il motivo conduttore della mia vita. Ho lottato, in modi diversi, per fare giustizia contro l’iniquità della povertà e della sofferenza sociale.

Un rapporto dunque molto intenso coi dannati della terra, ma anche il desiderio di superare questa soglia e gridare che, proprio mentre mi sento a posto con la mia coscienza, sono nel peccato di quella che chiamerei la volontà di potenza: consolare chi cerca consolazione, e quindi di non lavorare di conseguenza sulla disperazione, come passaggio obbligato della speranza.

Constato, però, che questa lotta e questa condanna sono rimaste parole vuote, spesso usate anche da chi non ci crede.

Oggi, infatti, siamo di fronte a una pesante sconfitta dello “Spirito”, più grave e drammatica dell’enorme disastro della povertà e della miseria che affligge milioni di uomini. Il discorso di condanna contro i potenti, a favore dei dannati della terra resta sospeso in un vuoto di “effettività” penoso e non riesce a scuotere il torpore in cui siamo immersi.

Non è l’Islam che bisogna capire e apprezzare come antagonista della globalizzazione, ma la malattia dell’Occidente, il perché dell’apatia e dell’indifferenza.

Sono convinto che l’irruzione del nuovo nella nostra storia può avvenire soltanto se l’Occidente riesce a piegarsi fino a comprendere il proprio male oscuro.

Questo Occidente è malato di cinismo e per questo è abitato da pensieri di morte ai quali sfugge, “uccidendo” tutto ciò che lo circonda.

La malattia dell’Occidente non è quella di non riconoscere i Musulmani, o le altre culture, ma quella di non riuscire più a guardarsi dentro per guarire dall’odio e dall’invidia.

Quello che stupisce è la rassegnazione generale, la mancata indignazione della gente comune, sintomo doloroso e opprimente.

Significa che il male non riguarda solo il ceto politico, ma è entrato nella testa e nel cuore di tutti: il bene comune è ormai uscito di scena e la stessa verità oggettiva è piegata a criteri di utilità, interessi e convenienze .

Come e perché riconquistare la parola

Il pensiero e la voce (non c’è voce senza pensiero) sono ormai l’ultima linea di resistenza per riprendere il percorso educativo.

Quello di oggi è uno di quei momenti difficili nei quali il confronto e lo scontro non avverranno, nonostante le apparenze, sul terreno dei mezzi militari e delle prove di forza materiali, ma sul possesso e sulla manipolazione della parola.

Sto pensando a qualcosa di lento e di sotterraneo, a una specie di processo osmotico che valica frontiere e supera steccati, senza che quasi nessuno se ne accorga prima che sia avvenuto, a una sorta di penetrazione delle parole attraverso le barriere del fuoco e dell’acciaio da cui siamo ormai tutti circondati e imprigionati e che ci stanno dividendo al nostro interno gli uni dagli altri, in modo diverso e misura, ormai stranieri in patria.

Lavorare sulla parola e per la parola è, quindi, il compito che ci sta davanti.

Allargare e dilatare lo sguardo è l’imperativo etico che insieme alla memoria ci aiuta a ricostruire la storia e le storie.

Ogni epoca storica chiama la fede e provoca le nostre dimensioni di vita più segrete.

Ogni epoca scioglie alcuni nodi esistenziali e contemporaneamente ne forma degli altri.

Ogni epoca segue i suoi itinerari e rivela qualcosa dei suoi segreti e dunque, rileggere la storia dal punto di vista della fede, significa anche questo: accompagnare le sue piccole e timide intuizioni.

Se davvero sentiamo la frammentazione, l’oscurità del presente e le sofferenze che provocano, in noi si deve risvegliare la capacità di vedere un altro ordine del mondo.

Vedere realmente non significa fissare qualcosa con lo sguardo e restare fermi, significa iniziare ad agire, perché la vera visione mette in cammino.

La società, per diventare equa e armoniosa, deve essere intessuta, come dice Martin Buber, in “comunità di comunità”, cioè dentro una trama complessiva ricca di luoghi, di tradizioni e forme di relazione, dove nessuno è dichiarato ultimo o extracomunitario, perché invece ognuno è considerato come presenza preziosa, un valore vivente infinito, con un volto e una storia.

Scoprire la forza che sta in noi

Che cosa fare e come fare?

E’ una domanda che resta aperta.

Dobbiamo riscoprire da subito nuovi gesti. Il gesto è qualcosa di etico: non esistono gesti neutrali, né quelli più intimi, e neppure quelli di rappresentanza formale e penso che le risposte non possano essere, nella situazione attuale, solo economiche, anche se sono le più urgenti, e neppure solo politiche.

Occorre scoprire l’impulso profondo che è dentro di noi, quell’energia che ci potrà mettere in movimento, e tessere reti di comunione.

Siamo in una storia che cammina e che rivendica il suo ritmo, ma e ideologie e le istituzioni non sanno rispondere al ritmo della storia. E’ in questo ritmo che entra il grido, perché la storia é fatta da persone che

“dal profondo gridano” (salmo 130).

Da dove arriva questo grido?

Arriva da varie parti: dal Sud del mondo, dai poveri, dalla donna, da dentro di noi.

La storia si comincia a fare attraverso tentativi, per questo dobbiamo risvegliare in noi la voglia di riprovarci ancora: la storia non comincia dai risultati.

Percorrere nella Chiesa la responsabilità verso il mondo

La Chiesa è fedele alla storia quando afferma e proclama la parola ricevuta senza riguardo ai potenti.

Pecca d’idolatria (il più grave peccato) quando si appoggia ai potenti per sostenere il bene.

I potenti volentieri si appropriano della bandiera del bene e di Dio stesso, per consacrare il proprio dominio.

Le varie spiritualità cattoliche, seguite dai laici nel tempo attuale, sembrano non includere la responsabilità del mondo.

Invano il Concilio Vaticano II ha solennemente proclamato che il centro della predicazione di Gesù è il Regno, «regno di giustizia, di amore e di pace», che deve avvenire nel tempo per l’impegno e la responsabilità dell’uomo, chiamato a renderne conto nel giorno della seconda venuta di Cristo, alla fine dei tempi.

E’ necessario recuperare uno stile diverso, contraddistinto da un forte senso di libertà – perché senza libertà non c’è comunione – e di confronto tra laici per permettere l’autonomia delle scelte e delle modalità di manifestare la fede nelle attività mondane.

Esercitare la gratuità

La fede è solo una nostra paranoia mentale o ci rivela realmente altri universi possibili, altre liberazioni dalla catena delle nostre necessità?

La risposta, quella spirituale, mi viene da quanto afferma Gesù.

Se uno ti chiede la tunica, tu gli dai anche il mantello. Se ti chiede di fare un chilometro, tu ne farai due.

Questo agire nella gratuità della relazione per raggiungere l’obiettivo assieme, significa anche scoprirci capaci di affrontare rischi, conflitti, e sofferenze.

Agire per far fronte al male è amore.

Amore che si conferma quando per superare gli effetti del male nasce la condivisione con chi fatica a vivere. Allora l’amore è nello sguardo con cui cogliamo le cose.

Il poeta brasiliano Rubem Alves afferma che educatori si nasce, io aggiungo che educatori si può diventare, purché si diventi poveri.

Si diventa educatori, non per fare una carriera professionale o per servire un potere, ma per aiutare le stelle a danzare nel cielo dei ragazzi, per liberare le potenzialità latenti e per umanizzare l’umanità.

Occorre, però, cambiare direzione: andare per le albe e nella notte, orientandosi con le stelle, in un cammino fra i boschi, nei sentieri di montagna, guardando il volto del fratello, mano nella mano. Riconoscendo prima i nostri errori e poi quelli degli altri.

Impegnarsi senza aspettare che gli altri s’impegnino con noi e prima di noi.

Conclusioni

Agli amici del Sud, particolarmente a quelli di Napoli e Salerno e Caserta, vorrei dire che è urgente creare un luogo collettivo d’incontro, di elaborazione e di formazione.

Il senso della vita non si impone per decreto, ma si produce nelle pratiche sociali. Perciò se abbiamo spazi di libertà e di decisione siamo responsabili della costruzione dei rapporti.

Per riconoscerci nella cultura del volontariato dobbiamo anticipare le scelte alternative; scelte che non sono legate a una decisione personale, ma bensì politica, anche se minoritaria.

Questo periodo oscuro e difficile è l’occasione per creare un formidabile messaggio di speranza, ma quale speranza?

La speranza va lontano, oltre l’attesa.

Guai fermarsi all’attesa di quanto si desidera, dove l’avvenire viene verso di noi, ma siamo noi che andiamo verso l’avvenire.

La speranza non mi dice cosa posso attendere da questo ambiente, ma cosa posso fare in questo ambiente. Solo così la speranza ci libera dall’attesa ansiosa.

(Relazione tenuta durante l’evento formativo “Sogni e utopie”, tenutosi a Salerno il 26 giugno ’10)

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